Ritornare a scrivere, sulla scena del crimine,
illudendosi di non riuscire a farlo finché la pioggia di novembre non ricominci
a cadere. Così, si continua a tacere: silenzio ad oltranza, fine delle
trasmissioni, dei sentimenti e dei sorrisi falsi. E non è un silenzio
volontario, chi vogliamo prendere in giro, sono parole che censuriamo per
paura, giacché la pioggia è solo un pretesto, dal momento che nella mia testa cade
incessantemente da giorni.
Non sono le parole, che contano, così come non conta il
punto d’onore che mi ero fatta di non restare delusa, e a dispetto del tuo
impegno ci sono sempre riuscita. Ancora non trovo un motivo valido per
scrivere, poiché la vita, alle volte, gira in una maniera che non ci fa
rimanere proprio più niente da dire, mentre al contempo implodiamo. Sai, è pazza
questa mia amica, urla sempre e ti chiama così intensamente che alle volte ho
paura che gli altri la sentano. Mentre saltuariamente rompo il mio silenzio,
chiedendole a cosa serva il suo strepitare per tenersi saldo quel punto d’onore
se ora, l’illusione, dovrò portarla in un luogo nascosto e strangolarla da me.
Il fatto è che non ho abbastanza forza, nessuna pistola,
e posso solo armarmi di penna e scrivere, dal momento che tutte le armi che
possiedo si riducono ad una matita tra le dita, un foglio bianco, l’anima in
fiamme, e non di meno, la consapevolezza di aver cambiato quello che ho potuto.
Purtroppo, quello che non ho potuto ha finito per cambiare me, che ancora mi
ostino a ripetermi di avere ho dimenticato e che, la miglior vendetta, è il
dormire bene la notte.
Ma chi voglio prendere in giro? Me stessa? Non funziona
più, ora che malgrado tutto non posso permettermi di non serbare rancore
alcuno. Dentro ancora mi detesto, mi ripudio a tal punto che spero un giorno
questo disprezzo possa rompere gli argini e trasmettersi anche al resto. A poco
serve alzarmi, prendermi per il collo del maglione e scuotermi. “Che cosa ti
prende?!” Nulla. È solamente più forte di me e del mio essermi stancata dei
codardi con l’amore degli altri.
Mi sono stancata del silenzio e del soprannome col quale
mi chiamano tutti: che suono ha la mia voce? Chi è Alis? La prima, forse non è
perfetta, nemmeno la tua. Mutevole, questo sì, mutevole e, a tratti,
spaventata, fragile ma al contempo fortissima. Forse non così limpida, stonata,
ciononostante, non abbastanza. Ma chi lo è? Alis? Alice? Tu? Abbastanza per
cosa poi? Dimmi. Quali sono i requisiti?
Io, di coraggio, ne ho da vendere. Il problema è che, a
furia di perdere pezzi a causa sua, mi chiedo cosa sto diventando pur di rimettermi
insieme e rialzarmi ogni volta.
So che ci sono persone più belle di me, indubbiamente,
pure lei lo è. So pure che ci sono strade lineari, attraverso le quali è
fantastico guidare di notte, finestrini abbassati, sigaretta in mano e nessun
pensiero né preoccupazione, ma, mi chiedo, alla lunga, che gusto c’è? Così come
pure mi chiedo a cosa serve giocare, stando bene attenti a che cosa si mette
sul piatto, se il destino riesce sempre a truccare i dadi dal principio? Se il
destino inevitabilmente gioca con le nostre vite incrociando la nostra anima ad
altre, per poi scioglierne il nodo? Maledizione.
Non esiste alcuna risposta a queste domande. Così come
non esiste bugia che tenga, dal momento che devo convincere pure me stessa che
siano vere. Non ho mai convinto nessuno, invece, che starmi vicino sia affare
semplice, se mai, ho cercato di farlo con me stessa… Impazzendo nel tentativo.
E nemmeno gettarsi da “una pelle all’altra” ha potuto alleviare un poco questa
dolorosa consapevolezza, giacché non ci si lega con catene, ma con desiderio e
follia.
Tutto questo, però, richiede coraggio. Un fottuto
coraggio, per dirla francamente. Coraggio per tentare un salto nel vuoto,
perché siamo tutti consapevoli che, alla gravità, non c’è modo di fuggire. Non
senza pagare un prezzo.
E che io abbia scritto tanto, forse troppo, finisce per
essere cosa volgare, a tratti triste. Il fatto è che restano pur sempre troppe
ore, alla notturna calma allucinata, ed è incredibile quanto si possa dire, pur
non ammettendo assolutamente nulla. Ammettere. Quale sarebbe la sentenza?
“Chiedo perdono, signor giudice, è più forte di me.” Lo è stato da quando ho
pensato a quanto odiassi, salvo poi accorgermi che l’odio è di mutevole aspetto
e che, quando questo si rivela per quello che realmente rispecchia, tutto ciò
che si desidera, è non averlo mai scoperto.
E, io, non so più odiarti. Richiederebbe uno sforzo
disumano, e il problema è che ogni qualvolta io cerchi di apparire forte,
inciampo nei miei stessi tentativi e mi chiedo chi mai possa cascarci, chi io
possa prendere in giro. La verità, vostro onore, è che vorrei riuscire pure io
a mettere in un ripostiglio il cuore, o in una fossa. Ci ho provato tempo fa:
l’ho interrato in un campo con le mie allucinazioni e, con la vanga in spalla,
ho sentito dalle zolle una vocina che mi chiamava. Ma mi ero proibita di
voltarmi, e non l’ho fatto. Così come non gli sono corsa appresso. Ora mi dico,
però, non è che possa passarci lui, almeno impazzisce?
La verità è che ho provato ad agire senza sentimento
alcuno, ma non possiedo abbastaza cuore per poterlo fare. Che paradosso. Così
come è pure paradossale il fatto di essere stata troppo, senza tuttavia essere
abbastanza; perché vorrei poter essere orchidea, piuttosto che dente di leone
sfiorito, al quale basta un soffio per distrugersi in mille pezzi.
Vedi? L’abbandono al vento richiede coraggio. Inutile
descriverlo se poi non lo si vuol neppure ascoltare. Inutile perché, quando
soffia, lo fa in modo subdolo e spietato e per quanto ci si metta d’impegno nel
dimenticare, se si perde tempo nel farlo, non si dimentica più. Non lo si fa
mai abbastanza in fretta. E non serve andare lontano, ci ho provato. Non serve,
dal momento che la pelle, si sa, ha una memoria d’acciaio.
L’abbandono, richiede più coraggio del vuoto, della
semplicità, perché abbandonarsi significa lasciarsi cadere senza avere la
certezza che qualcuno sarà lì a prenderci al volo prima di toccare terra. Ma
perché privarsi della sensazione, seppure breve, del volo? Non ci sarà nessuno.
E non si atterrerà nemmeno sul morbido, farà male, potrà essere orribile: una
guerra continua. Un interminabile bombardamento di razzi, granate, attacchi,
ferite, singhiozzi. Perché abbiamo tutti cuori della grandezza di un pugno e
sogni che non resistono all’impatto. Eppure… Eppure, si potrebbe tuttavia
continuare a cadere continuamente. Potrebbe essere fantastico e terrificante al
contempo. Eppure, si cerca in tutti i modi di proteggersi da ciò che si vuole,
anche quando il delitto è stato compiuto e, colpevoli, ci si ripete di essere
tuttavia noi le vittime del destino, seppure dentro ci si senta come un
assassino ad un funerale.
Il vuoto spaventa. Così come pure spaventa vedere tutto
ciò che si odia di sé, proiettato in altri sguardi insieme a tutto ciò che ci manca,
e non riuscire più a dimenticarlo, quello sguardo. Che queste persone lo
facciano apposta o meno, non ha importanza alcuna, dal momento che è un
sentimento che nasce da dove viene il vomito, e contro il quale non si può
proprio nulla. È naturale, non c’è nulla nell’acqua e le pillole sono solo dei
placebo. È naturale. Inutile cercare di illudersi del contrario, inutile
convincersi che, quando arriverà il proprio turno, si lacererà l’anima altrui
come è stato fatto con la nostra. Ciò non accadrà perché, di fronte a questa,
si è totalmente disarmati, sebbene si sappia quanto l’altro possa farci male
togliendoci ogni difesa, e poi passando ai vestiti.
E qui ho perso la capacità di comprendere perché qualcosa
che sappiamo ci farà male, ci piace. Ci schiaccerà e la ameremo ancora. Non
sembra incredibile? Ciò che è ancora più increbile, però, è il fatto che tale
sentimento non ha mai contemplato il sublime, ma era già impregnato di tutto il
patimento destinato, tanto da risultare disgustosamente delizioso. Labentia
signa. Esattamente così. Ora provo io, a spiegarti che i poeti latini usavano
questa espressione per indicare le stelle che cadono in estate: “segni
scivolanti”. Stelle che cadono. Caos che si disintegra. Può sembrare cosa fatua
eppure, l’astrofisica, insegna tuttavia che quella scia, così apparentemente
eterea, non è caduta né scivolamento, ma morte. Sì, nulla di lineare e
splendente, ma il caos più assoluto dal quale non nascono le stelle, ma vi
muoiono. L’inizio della fine. Non è ancora più affascinante? Maledizione, non è
ancora più dannatamente disgustoso ed eccitante?!