lunedì 30 dicembre 2013

Non bisognerebbe mai scrivere. (A cuore aperto)


Venerdì 8 novembre 2013, ore 01 - Seconda lettera
La notte mi strema, credo di avertelo già detto. Se lo fa, è perché il suo spietato torpore non fa altro che fomentare le mie allucinazioni. Ti ho visto almeno quattro volte, tornando a casa, in bici, poco fa. Eri con un gruppo di amici, su una panchina, alla fermata del bus e sotto il mio portone. Ti trovo ovunque, anche se per poterlo fare, devo inevitabilmente perdere me stessa.
Odio la notte perché le mie barriere emotive cadono e il cinismo mi viene a meno, e non bisognerebbe mai scrivere a cuore aperto. Se mai, scrivere dovrebbe servire per ferire a morte, mentre qualcuno, per ammazzare il tempo di queste ore vuote che colano lente, si è quasi ucciso lui. E, comunque, ci siamo sconvolti tutti per ammazzare il tempo.

Odio la notte, perché avevo imparato ad amarla con la tua compagnia, della quale ora resta solo un fantasma e pagine di lettere battute al computer. Io, ora, userò solo la penna perché vorrei che la realtà sia solo quella che si possa vedere e toccare. Tu ? Tu non appartieni al mondo volgare, e ne sei perfettamente consapevole : se non mi avessi fatto del bene scuotendomi e facendomi vibrare l’anima, ti avrei già distrutto con la fantasia. Ma, sei ancora qui, e noi non siamo vivi. Non in questo mondo di leggi ordinarie e ipocrisia. Se così fosse, la nostra vita risulterebbe, per essere solo una comune vita, alquanto insana.

Mi vedessi ora, penseresti che io sia impazzita completamente. La conferma a ciò potrebbe poi venirti nel chiedermi come io stia, ora come ora. Uno schifo, senza te. Qui c’è un immenso casino di eclissi lunari, mentre mi rendo conto che nemmeno affidarsi ad un’altra pelle può alleviare un poco la mia sete. Quante volte ho mentito col corpo, ripudiandolo, perché non se ne è mai accorto nessuno ? L’ultima volta che qualcuno è entrato in me, sono scoppiata in un pianto convulsivo. Sai, se ti penso troppo forte, mi accade ciò. E forse l’avevo capito dalla prima volta, anni fa, quando ti avevo visto e incontrato e, immediatamente odiato. Poi ? Poi ci siamo sdraiati vicini, anni dopo, con i cuori arresi.

Va a sdraiarti, ora, è tarda notte e qualcuno potrebbe insospettirsi. Va a sdraiarti o fa l’amore con lei. Fallo. E poi dimmi a che cosa hai pensato. Qui, sono le mie parole che incontrano la tua presenza, il ritmo dei nostri respiri che si uniscono, e provo un’enorme stanchezza nello scriverti, tanto che, ora, devo fermarmi e ritrovare la calma.

domenica 29 dicembre 2013

Non avrei mai pubblicato questi scritti. (Cominciamo dalla fine.)


Ho scritto chilometri di lettere, partendo dalla fine di questa non storia e andando a ritroso. E tutto quello che resta, è la domanda del perché. Il motivo è alquanto semplice : non sono riuscita a comprendre l’inizio, fino a che non ho raggiunto la fine.
È facile, per una come me, cadere senza la minima paura alcuna, Alice nella buca del bianconiglio, perché io, non so cosa significhi vivere a metà. Amare a metà, coinvolgersi ma non troppo… Non fa per me, e neppure per lui, che alla fine, ha trovato la sua realizzazione sotto molteplici forme.
Dovere sapere che non ho giustificazione alcuna, per il modo errato di provare sentimenti : i miei affetti, sono sempre eccessivi. Forse, se non ci fossimo mai conosciuti, a questo punto, avrei ancora maschera e cuore intatti, ma un sentimento come quello vale tutti i frammenti del mondo.
Cominciamo da qui, da questa mia inutile premessa, dalla fine. Già,
non avrei pubblicato questi scritti se non prima di raggiungere la consapevolezza che, se prima avevo paura di perdere il mio interlocutore, ora ho paura di ritrovarlo. E, magari, ora lascio da parte questo inutile tentativo di dare a queste lettere una spiegazione logica, di tracciare un confine tra finzione letteraria e realtà, tra sentimenti e sensazioni. Come se lui e voi altri sapeste già tutto e riusciste ad accettarli nella loro totalità. Come se la consapevolezza che, magari, lui volesse solo starsene dietro il suo vetro, tranquillo, e che con me, ciò non sarebbe stato possibile : con me, star tranquilli non si può, fosse già chiara fin dal principio.
Ecco, ora, possiamo cominciare.

Giovedì 7 novembre 2013, ore 18 - Prima lettera
Anche se non sei qui, può sembrare cosa folle, imbarazzante, insensata, io ti scrivo. Ti scrivo perché ora, oltre alla disperazione, vorrei poter trovare anche me e, scrivendoti, mi cerco.
Che son solita chiudermi in un silenzio ermetico e mostrare gli artigli, forse questo non lo hai ancora capito, giacché con te mi risulta impossibile e, qualora provo a nascondermi, devo far ricorso a un alleato degno solo di essere disprezzato : l’orgoglio. Croce e delizia, ci protegge e ci annienta al contempo.
Premetto che scriverò d’impulso, senza brutte copie, o inutili prove che finirebbero solamente per scolorire le mie parole, conformandole ad un registro adatto. Io non voglio scriverti in modo adatto. Voglio farlo in modo vero, brutto, banale, orrido, ma reale. Poco importa il resto, te compreso. Già, non importa perché, ad ogni modo, non sei qui, pur essendoci con la tua presenza. Non importa, perché questo mi spinge ad esserne attratta, e quindi non ha nulla a che vedere con una sensazione fisica : « never thought I’d get and highter / Never thought you’d fuck with my brain », qualcosa del genere. Non sto giustificandomi, non ho alcun motivo per doverlo fare, sto solo cercando di spiegarti perché, io, dopo tutto, ti scrivo.
Ma mentre cerco un motivo valido, mi rendo conto che i miei pensieri viaggiano ad una velocità ben maggiore della penna, quindi, non cercherò più una ragione.

Nulla ha senso, dopo tutto, ricordi ? Me lo avevi insegnato proprio tu : « Io vi dico : si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza. » Zitto, non alzare gli occhi, né cercare di darne una spiegazione o dire che, tu, trovi fantastica l’interpretazione che ne ha fatto Palahniuk… Nietzsche continuava così : « Io vi dico : avete ancora del caos in voi. » Hai voglia ! Il mio caos è talmente vasto, che non vedo l’ora che possa provocare una qualsiasi emorragia interna… Penso che ci voglia un po’ di veleno, ogni tanto : fa un gran bene, non credi ? Per questo ti odio, ricordi quella canzone ? « …credimi, tu mi assordi, come fai… ti subirò ». Non starò qui a urlarti in faccia perché tu abbia deciso di rimetterti il casco un attimo prima di lasciarci andare all’asfissia, ma ti dirò che per questo non riesco a odiarti. Se mai, odio il fatto che tu sia capace di scuotermi e fermare la mia emorragia : non capisci che quelli « come noi » (passami il termine senza fare quella faccia supponente), costretti a sanguinare, nascono ? Perché, allora, finiscono per tamponare il fluire del sangue ? Perché hai paura di affondare il coltello ? Io, desidero tu lo faccia.

Sto divagando, e ancora ti odio per questo : per il tuo provocarmi anche solo pensandoti, e quel tuo modo sfacciato di non nascondere nulla. Fermo, non sto sbagliando, non mi riferisco a nulla di fisico : so quanto oceano si può contenere. Odio i tuoi occhi, quella loro trasparenza sfrontata che rispecchia ogni pensiero, ma lo fa in modo distorto, ambiguo, e per questo intrigante. Ciò è proibito, sai ? Dove eri quando la vita ce l’ha insegnato ? È pericoloso, e tu lo sai. Ma, come succede in me, questa consapevolezza altro non fa che fomentare la nostra naturale passione verso il proibito, il caos, dal quale ritirarsi sarebbe un delitto maggiore di quello che, inevitabilmente, si compie nell’abbandonarsi ad esso.

giovedì 19 dicembre 2013

Forse, dal dolore, guarire si può. (Ricominciamo da qui.)


Ho lottato invano. Non c’è rimedio. Non sono in grado di reprimere i miei sentimenti. Eppure, sto un po’ meglio, pur senza capire come. Certo, ho un carattere forte, dicono tutti. Quelle come me sono tenaci. Li ho lasciati parlare, e intanto pensavo al fatto che quelle come me sono sì forti, ma ogni notte pensano di non farcela, e questo le porta a stare sveglie. Sapeste com’è faticoso, il coraggio, a volte. Quanta volontà ci vuole in periodi di un nero spettacolare per uscire, per affrontare il mattino con tanta notte dentro.

Ma forse, dal dolore, si riesce anche a guarire, e, soprattutto, a tornare a scrivere. Voglio ricominciare a scrivere, perché farlo è come correre in un campo minato sperando di non esplodere, e perché, per uccidere qualcuno, bastano tre parole ben assestate.
Odiarti senza imbrogli.
Ecco. Cominciamo da qui. Ho bisogno di poter abbandonare i miei sogni nei quali credevo ancora, e quella domanda martellante che mi rimbomba in testa e non mi lascia dormire : « A che servono gli incontri, se poi ognuno prosegue per la sua strada ? » La mia, in questi ultimi tempi, non fa altro che essere attraversata da sconfitte, eppure… Eppure sono riuscita ad abbandonare l’ambizione di diventare migliore, di colorare la mia anima scura : è già lucente così.

Ora, è tempo di abbandonare i codardi con l’amore degli altri, che non hanno ancora capito che senza fegato non si arriva da nessuna parte, così come chi ha messo il suo cuore in un angolo per paura di ascoltarlo. Ci sono poi gli ipocriti, chi punta il dito per poi nascondervisi dietro. I miei incubi notturni, rimpiazzati dalla ferma certezza che, prima o poi, qualcuno farà lo sbaglio di fare il pazzo, venire sotto casa mia, tirare sassi alla finestra illuminata, per pretendere poi di sfondare il portone con un mazzo di rose. Quindi lascio su questa terra volgare, che non mi appartiene, anche le sostanze per dormire, giacché voglio restare sveglia e chiedermi ogni momento se son sicura di quello che non sto facendo.
Tutto questo, per dirti che, ora, il fatto che mi manchi non mi ferisce, né mi cura. Perché siamo lontani, forse in secoli diversi, forse su due continenti o pianeti diversi, che si son cercati ma ora son stanchi di non trovarsi mai.
Perché, ora, è come se la vita mi dicesse : guarda, sono qui, riprova.

martedì 5 novembre 2013

"Labentia signa" (Alla gravità, non c’è modo di fuggire.)


Ritornare a scrivere, sulla scena del crimine, illudendosi di non riuscire a farlo finché la pioggia di novembre non ricominci a cadere. Così, si continua a tacere: silenzio ad oltranza, fine delle trasmissioni, dei sentimenti e dei sorrisi falsi. E non è un silenzio volontario, chi vogliamo prendere in giro, sono parole che censuriamo per paura, giacché la pioggia è solo un pretesto, dal momento che nella mia testa cade incessantemente da giorni.
Non sono le parole, che contano, così come non conta il punto d’onore che mi ero fatta di non restare delusa, e a dispetto del tuo impegno ci sono sempre riuscita. Ancora non trovo un motivo valido per scrivere, poiché la vita, alle volte, gira in una maniera che non ci fa rimanere proprio più niente da dire, mentre al contempo implodiamo. Sai, è pazza questa mia amica, urla sempre e ti chiama così intensamente che alle volte ho paura che gli altri la sentano. Mentre saltuariamente rompo il mio silenzio, chiedendole a cosa serva il suo strepitare per tenersi saldo quel punto d’onore se ora, l’illusione, dovrò portarla in un luogo nascosto e strangolarla da me.
Il fatto è che non ho abbastanza forza, nessuna pistola, e posso solo armarmi di penna e scrivere, dal momento che tutte le armi che possiedo si riducono ad una matita tra le dita, un foglio bianco, l’anima in fiamme, e non di meno, la consapevolezza di aver cambiato quello che ho potuto. Purtroppo, quello che non ho potuto ha finito per cambiare me, che ancora mi ostino a ripetermi di avere ho dimenticato e che, la miglior vendetta, è il dormire bene la notte.
Ma chi voglio prendere in giro? Me stessa? Non funziona più, ora che malgrado tutto non posso permettermi di non serbare rancore alcuno. Dentro ancora mi detesto, mi ripudio a tal punto che spero un giorno questo disprezzo possa rompere gli argini e trasmettersi anche al resto. A poco serve alzarmi, prendermi per il collo del maglione e scuotermi. “Che cosa ti prende?!” Nulla. È solamente più forte di me e del mio essermi stancata dei codardi con l’amore degli altri.

Mi sono stancata del silenzio e del soprannome col quale mi chiamano tutti: che suono ha la mia voce? Chi è Alis? La prima, forse non è perfetta, nemmeno la tua. Mutevole, questo sì, mutevole e, a tratti, spaventata, fragile ma al contempo fortissima. Forse non così limpida, stonata, ciononostante, non abbastanza. Ma chi lo è? Alis? Alice? Tu? Abbastanza per cosa poi? Dimmi. Quali sono i requisiti?
Io, di coraggio, ne ho da vendere. Il problema è che, a furia di perdere pezzi a causa sua, mi chiedo cosa sto diventando pur di rimettermi insieme e rialzarmi ogni volta.
So che ci sono persone più belle di me, indubbiamente, pure lei lo è. So pure che ci sono strade lineari, attraverso le quali è fantastico guidare di notte, finestrini abbassati, sigaretta in mano e nessun pensiero né preoccupazione, ma, mi chiedo, alla lunga, che gusto c’è? Così come pure mi chiedo a cosa serve giocare, stando bene attenti a che cosa si mette sul piatto, se il destino riesce sempre a truccare i dadi dal principio? Se il destino inevitabilmente gioca con le nostre vite incrociando la nostra anima ad altre, per poi scioglierne il nodo? Maledizione.

Non esiste alcuna risposta a queste domande. Così come non esiste bugia che tenga, dal momento che devo convincere pure me stessa che siano vere. Non ho mai convinto nessuno, invece, che starmi vicino sia affare semplice, se mai, ho cercato di farlo con me stessa… Impazzendo nel tentativo. E nemmeno gettarsi da “una pelle all’altra” ha potuto alleviare un poco questa dolorosa consapevolezza, giacché non ci si lega con catene, ma con desiderio e follia.

Tutto questo, però, richiede coraggio. Un fottuto coraggio, per dirla francamente. Coraggio per tentare un salto nel vuoto, perché siamo tutti consapevoli che, alla gravità, non c’è modo di fuggire. Non senza pagare un prezzo.
E che io abbia scritto tanto, forse troppo, finisce per essere cosa volgare, a tratti triste. Il fatto è che restano pur sempre troppe ore, alla notturna calma allucinata, ed è incredibile quanto si possa dire, pur non ammettendo assolutamente nulla. Ammettere. Quale sarebbe la sentenza? “Chiedo perdono, signor giudice, è più forte di me.” Lo è stato da quando ho pensato a quanto odiassi, salvo poi accorgermi che l’odio è di mutevole aspetto e che, quando questo si rivela per quello che realmente rispecchia, tutto ciò che si desidera, è non averlo mai scoperto.

E, io, non so più odiarti. Richiederebbe uno sforzo disumano, e il problema è che ogni qualvolta io cerchi di apparire forte, inciampo nei miei stessi tentativi e mi chiedo chi mai possa cascarci, chi io possa prendere in giro. La verità, vostro onore, è che vorrei riuscire pure io a mettere in un ripostiglio il cuore, o in una fossa. Ci ho provato tempo fa: l’ho interrato in un campo con le mie allucinazioni e, con la vanga in spalla, ho sentito dalle zolle una vocina che mi chiamava. Ma mi ero proibita di voltarmi, e non l’ho fatto. Così come non gli sono corsa appresso. Ora mi dico, però, non è che possa passarci lui, almeno impazzisce?
La verità è che ho provato ad agire senza sentimento alcuno, ma non possiedo abbastaza cuore per poterlo fare. Che paradosso. Così come è pure paradossale il fatto di essere stata troppo, senza tuttavia essere abbastanza; perché vorrei poter essere orchidea, piuttosto che dente di leone sfiorito, al quale basta un soffio per distrugersi in mille pezzi.

Vedi? L’abbandono al vento richiede coraggio. Inutile descriverlo se poi non lo si vuol neppure ascoltare. Inutile perché, quando soffia, lo fa in modo subdolo e spietato e per quanto ci si metta d’impegno nel dimenticare, se si perde tempo nel farlo, non si dimentica più. Non lo si fa mai abbastanza in fretta. E non serve andare lontano, ci ho provato. Non serve, dal momento che la pelle, si sa, ha una memoria d’acciaio.
L’abbandono, richiede più coraggio del vuoto, della semplicità, perché abbandonarsi significa lasciarsi cadere senza avere la certezza che qualcuno sarà lì a prenderci al volo prima di toccare terra. Ma perché privarsi della sensazione, seppure breve, del volo? Non ci sarà nessuno. E non si atterrerà nemmeno sul morbido, farà male, potrà essere orribile: una guerra continua. Un interminabile bombardamento di razzi, granate, attacchi, ferite, singhiozzi. Perché abbiamo tutti cuori della grandezza di un pugno e sogni che non resistono all’impatto. Eppure… Eppure, si potrebbe tuttavia continuare a cadere continuamente. Potrebbe essere fantastico e terrificante al contempo. Eppure, si cerca in tutti i modi di proteggersi da ciò che si vuole, anche quando il delitto è stato compiuto e, colpevoli, ci si ripete di essere tuttavia noi le vittime del destino, seppure dentro ci si senta come un assassino ad un funerale.

Il vuoto spaventa. Così come pure spaventa vedere tutto ciò che si odia di sé, proiettato in altri sguardi insieme a tutto ciò che ci manca, e non riuscire più a dimenticarlo, quello sguardo. Che queste persone lo facciano apposta o meno, non ha importanza alcuna, dal momento che è un sentimento che nasce da dove viene il vomito, e contro il quale non si può proprio nulla. È naturale, non c’è nulla nell’acqua e le pillole sono solo dei placebo. È naturale. Inutile cercare di illudersi del contrario, inutile convincersi che, quando arriverà il proprio turno, si lacererà l’anima altrui come è stato fatto con la nostra. Ciò non accadrà perché, di fronte a questa, si è totalmente disarmati, sebbene si sappia quanto l’altro possa farci male togliendoci ogni difesa, e poi passando ai vestiti.

E qui ho perso la capacità di comprendere perché qualcosa che sappiamo ci farà male, ci piace. Ci schiaccerà e la ameremo ancora. Non sembra incredibile? Ciò che è ancora più increbile, però, è il fatto che tale sentimento non ha mai contemplato il sublime, ma era già impregnato di tutto il patimento destinato, tanto da risultare disgustosamente delizioso. Labentia signa. Esattamente così. Ora provo io, a spiegarti che i poeti latini usavano questa espressione per indicare le stelle che cadono in estate: “segni scivolanti”. Stelle che cadono. Caos che si disintegra. Può sembrare cosa fatua eppure, l’astrofisica, insegna tuttavia che quella scia, così apparentemente eterea, non è caduta né scivolamento, ma morte. Sì, nulla di lineare e splendente, ma il caos più assoluto dal quale non nascono le stelle, ma vi muoiono. L’inizio della fine. Non è ancora più affascinante? Maledizione, non è ancora più dannatamente disgustoso ed eccitante?!