giovedì 2 gennaio 2014

Provocami. (Mai sono stata capace di amare.)

Sabato 9 novembre 2013, ore 21 - Quarta lettera
Parlami delle tue galere, fammi leggere quello che scrivi, versami del rum, ma distoglimi dal pensare, sta sera. Se solo l’avessi saputo prima, di ricevere l’ennesima pugnalata alle spalle, mi sarei fatta trovare molto, ma molto più sconvolta di così. Portami a casa, parlami di cose allegre e lacrimogene, che tutti credono sia io, quella forte, quando non riesco nemmeno ad essere una buona nemica. Le loro parole mi hanno incrinato le costole e io, quanto vorrei poter usare i miei sogni come armi, e la penna per fare una tracheotomia a quella gente.

Dimmi che non c’è un cazzo da piangere, e poi contraddiciti, dicendomi di buttare fuori tutto, che dentro ristagna e marcisce, e le mie viscere non possomo somigliare alle loro. Lasciami ringraziarti dal bagno, con la nausea, della cena, e poi raccoglimi dai miei vertiginosi svenimenti. Scuotimi, provocami, fai tutto quello che è necessario ma, ti prego, fammi reagire. Ho ancora del caos in me : tiramelo fuori, anche ferendomi e lasciandomi ferirti fino a diventare consanguinei. Sai, credo che ci siamo rovinati, io e te, al punto da migliorarci, scambiandoci saliva e illusioni.

Scusa per questo diluvio di lacrime, per come io non sia più in grado di scrivere come se dovessi morire dopo ogni parola, ma, alle volte, la cattiveria della gente, riesce a ferirmi a tal punto da non riuscire più a convincermi che le loro parole altro non siano che anidride carbonica, e a ridervi a dirotto contro. Vorrei che questo dolore potesse portarmi ad un’indifferente serietà, invisibilità e menefreghismo. Ma io non sono fatta così : ho una testa troppo porosa e, putroppo, sono una pericolosa ricevente senza spurghi. Sono un ordigno che potrebbe esploderti davanti in questo momento. Per questo, ti sto chiedendo di disinnescami il cuore, oppure provocarmi al punto da scoppiare. Eppure sai anche tu che i miei sfoghi sono silenziosi, e gli unici testimoni ne sono i graffi sulle braccia, apparsi quando te ne sei andato.
E non so esattamente cosa io desideri da te : forse semplicemente sentirti dire di stare tranquilla, che andrà tutto bene, alla fine e, se così non sarà, vorrà dire che quella non era ancora la fine.

Ma tu non sei fatto così, e io nemmeno. E allora portami fuori di peso, portami a bere, a urlare alla luna in questa notturna calma allucinata. E sicuramente mi convincerai a disinfettare a oltranza le mie emorragie interne, tanto che arrivo a dirti che mi fa sì male, ma non è niente di che, che se mi sorreggo al bancone sto anche in piedi da sola e che ti odio e non ho bisogno di te, perché la verità rende liberi, e io voglio restare prigioniera.

Così li vedi e non provo nemmeno a emettere un suono, che il vostro scambio di opinioni sta già imbrattando di rosso le pareti del locale. E io non posso fare altro che esserti riconoscente, perché il mio corpo è più conforme all’amore che alle lotte. Fagli male. Fagliene quanto vorrei fartene io, per ucciderti, mentre sbattiamo contro una parete, per poi finire a terra a naufragare nell’alta marea dei nostri sguardi. Che poi ti riporto a casa, barcollando come in quella canzone dei Placebo, e magari ti confesso anche che invece io adoro come succhi il mio corpo asciutto, che ho bevuto talmente tanto caffé da quella volta che ci siamo visti, che non riesco a berne senza pensarti, che dentro i tuoi occhi trasparenti ci vedo l’oceano e mi spaventa, che hai degli interminabili temporali dentro te, e in questo siamo simili. Vieni ad asciugarmi, e strappami la penna dalle mani che è bene io non ti scriva che non sono mai stata capace di amare e sento che ho qualcosa dentro che non voglio conoscere…

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