Sabato 9 novembre 2013, ore 21 - Quarta lettera
Parlami delle tue galere, fammi leggere quello
che scrivi, versami del rum, ma distoglimi dal pensare, sta sera. Se solo l’avessi
saputo prima, di ricevere l’ennesima pugnalata alle spalle, mi sarei fatta
trovare molto, ma molto più sconvolta di così. Portami a casa, parlami di cose
allegre e lacrimogene, che tutti credono sia io, quella forte, quando non
riesco nemmeno ad essere una buona nemica. Le loro parole mi hanno incrinato le
costole e io, quanto vorrei poter usare i miei sogni come armi, e la penna per
fare una tracheotomia a quella gente.
Dimmi che non c’è un cazzo da piangere, e poi
contraddiciti, dicendomi di buttare fuori tutto, che dentro ristagna e marcisce,
e le mie viscere non possomo somigliare alle loro. Lasciami ringraziarti dal
bagno, con la nausea, della cena, e poi raccoglimi dai miei vertiginosi
svenimenti. Scuotimi, provocami, fai tutto quello che è necessario ma,
ti prego, fammi reagire. Ho ancora del caos in me : tiramelo fuori, anche
ferendomi e lasciandomi ferirti fino a diventare consanguinei. Sai, credo che
ci siamo rovinati, io e te, al punto da migliorarci, scambiandoci saliva e
illusioni.
Scusa per questo diluvio di lacrime, per come
io non sia più in grado di scrivere come se dovessi morire dopo ogni parola,
ma, alle volte, la cattiveria della gente, riesce a ferirmi a tal punto da non
riuscire più a convincermi che le loro parole altro non siano che anidride
carbonica, e a ridervi a dirotto contro. Vorrei che questo dolore potesse
portarmi ad un’indifferente serietà, invisibilità e menefreghismo. Ma io non
sono fatta così : ho una testa troppo porosa e, putroppo, sono una
pericolosa ricevente senza spurghi. Sono un ordigno che potrebbe esploderti davanti
in questo momento. Per questo, ti sto chiedendo di disinnescami il cuore,
oppure provocarmi al punto da scoppiare. Eppure sai anche tu che i miei sfoghi
sono silenziosi, e gli unici testimoni ne sono i graffi sulle braccia, apparsi
quando te ne sei andato.
E non so esattamente cosa io desideri da
te : forse semplicemente sentirti dire di stare tranquilla, che andrà
tutto bene, alla fine e, se così non sarà, vorrà dire che quella non era ancora
la fine.
Ma tu non sei fatto così, e io nemmeno. E
allora portami fuori di peso, portami a bere, a urlare alla luna in questa
notturna calma allucinata. E sicuramente mi convincerai a disinfettare a
oltranza le mie emorragie interne, tanto che arrivo a dirti che mi fa sì male,
ma non è niente di che, che se mi sorreggo al bancone sto anche in piedi da
sola e che ti odio e non ho bisogno di te, perché la verità rende liberi, e io
voglio restare prigioniera.
Così li vedi e non provo nemmeno a emettere un
suono, che il vostro scambio di opinioni sta già imbrattando di rosso le pareti
del locale. E io non posso fare altro che esserti riconoscente, perché il mio
corpo è più conforme all’amore che alle lotte. Fagli male. Fagliene quanto
vorrei fartene io, per ucciderti, mentre sbattiamo contro una parete, per poi
finire a terra a naufragare nell’alta marea dei nostri sguardi. Che poi ti
riporto a casa, barcollando come in quella canzone dei Placebo, e magari ti
confesso anche che invece io adoro come succhi il mio corpo asciutto, che ho
bevuto talmente tanto caffé da quella volta che ci siamo visti, che non riesco
a berne senza pensarti, che dentro i tuoi occhi trasparenti ci vedo l’oceano e
mi spaventa, che hai degli interminabili temporali dentro te, e in questo siamo
simili. Vieni ad asciugarmi, e strappami la penna dalle mani che è bene io non
ti scriva che non sono mai stata capace di amare e sento che ho qualcosa dentro
che non voglio conoscere…
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